29 maggio 2014

Il momento, quello giusto.

Mia madre non mi ha mai lasciata.
Se mi diceva "ti reggo, non preoccuparti", lei mi reggeva davvero: non ha mai sgarrato una volta, nemmeno una.
Un giorno, quando avevo 4 o 5 anni, ero in piscina.
A un certo punto, nell'entusiasmo del gioco, mi gettai in acqua dimenticandomi di aver tolto i braccioli pochi istanti prima.
Furono secondi lunghissimi, di cui ancora ricordo tutto: le bollicine che salgono, le piastrelle azzurre mentre affondo, le mie gambe muoversi convulsamente, le braccia di mio padre che mi riportano a galla.
Poi il bordo caldo della vasca, l'acqua in bocca e nel naso, il pianto disperato.
I miei genitori dopo qualche tempo mi mandarono a lezione di nuoto, e mi piacque.
Però i primi giorni, ancora insicura, mi aggrappavo a mia madre e le dicevo "però reggimi, tu reggimi" e lei mi reggeva, anche se potevo già andare da sola.
Magari la risposta era "Susi non mi rompere i coglioni: se ti ho detto che non ti mollo, io NON ti mollo. Neanche se mi preghi in turco, hai capito?", ma non mi mollava.
E questa cosa -per me- era una certezza; e sentirgliela dire, un balsamo.
Mia madre non è mai stata della scuola mettile la mano sotto la pancia e poi lasciala andare tanto non se ne accorge e va da sola. 
I bambini non sono scemi. I bambini -soprattutto- credono a ciò che gli dici.
Io le ho creduto, lei non ha mollato: e ha fatto tutta la differenza del mondo.


Poi un giorno in prima elementare volli imparare ad andare in bici senza rotelle.
La bici era di un mio amico e il suo giardino aveva una piccola discesina d'ingresso ombreggiata da quel grande e tozzo baobab su cui giocavamo a fare le scimmiette.
Mia sorella mi dice "ti tengo io, tu pedala."
Io faccio un po' la lagna, metto su un po' di storie ma alla fine cedo.
Salgo. La sento dietro che regge il sedile. Carico il piede sul pedale, spingo. Lei dietro.
Parto a zig-zag, ma lei mi regge.
Smetto di guardarmi i sandali, alzo il viso, carico sul pedale, spingo. Filo dritta.
Carico ancora, non cado, dritta.
Carico, giro il manubrio, guardo in alto, arietta sul viso, non cado, dritta.
Mi volto: lei è 50 m più indietro ferma davanti al cancello, e mi sorride.

Io non lo so quand'è che è più giusto aspettare, quando lasciare.
So che valgono entrambe, a un certo punto, ma in punti diversi.
Forse lo senti, quando un bambino comincia a far finta di credere. Forse te lo fa capire.
Quel momento in cui ascolta più dentro di sé che non le tue labbra che gli parlano.
Quello in cui ha ancora bisogno di credere di non farcela senza di te, ma più che altro fa finta e ci gira attorno.
O forse lo senti tu, dentro di te, che stai facendo finta, che te la stai raccontando.
E lo sai, o non lo sai, o non lo vuoi, o sei rassegnata ad accettarlo ma non ad ammetterlo, che lui sta già spingendo, su quei pedali.
E fila via, dritto, senza cadere.

23 maggio 2014

Di te e di quando abbiamo sei gambe.

Quando di notte sei scappato sul balcone e ci hai chiamati tutti a vedere le lucciole intorno al vaso del basilico.

Quando ti ho chiesto cos'è la bellezza e mi hai risposto "Tu. Pecché sei fotte, e corazzosa." senza spiegarmi il coraggio o la forza di che.

Quando intrattieni conversazioni con la tua ombra, intimandole di seguirti mentre i bambini intorno ti guardano strano.
Perché, effettivamente, tu sei un po' strano, ma comunque questi -oh- machessiguardano.

Quando rispondi male o ti butti per terra, quando fai i capricci sul pavimento del supermercato. Quando ti ho detto per me puoi anche pulirlo tutto, e mi hanno guardata male.
Quando sei tu, decisamente nevrotico, e io te l'allungherei tanto volentieri una manata, ma alla fine ci ripenso.
Quando invece te l'allungo e poi mi sento un'infame.
Quando ci chiediamo scusa e mi dici che la senti che sale -la rabbia- ma non riesci a fermarla e io ti capisco, oh se ti capisco e stiamo lì sul divano in pigiama, abbracciati e un po' malconci, che sembriamo in terapia.

Quando non m'impunto e ti prendo di lato, la butto sull'affettivo e tu lo recepisci- perché sei un tipo parecchio, parecchio affettivo- e allora ti sgonfi, lo vedo che ti rilassi proprio, che la calma ti scende addosso come un balsamo, e capisco che ne siamo fuori e l'ho imbroccata, stavolta è andata e sono stata brava, proprio brava.

Quando gli altri fanno casino intorno a te ma io prendo un libro e improvvisamente ne fai il il tuo perno: la storia il tuo perno, i personaggi, i colori, le parole, tutto.
Quando me le ripresenterai tra qualche giorno, quelle parole - rivisitate: sulle tue labbra, tra i tuoi pensieri, nei discorsi alle ombre o alle chiocciole.

Quando stiamo arrotolati nel letto la mattina e siamo un corpo unico di 3: 3 nasi, 6 gomiti, 6 gambe e 30 dita dei piedi.
Quando stiamo arrotolati così la vita vale tutta, il mondo val la pena di tutto, io non ho paura di niente e potrei far fuori uno dei tuoi draghi giganti come niente fosse e capisco -sento- perché non mi spieghi il coraggio e la forza di che.

14 maggio 2014

Le cose che dicono i bambini.

Le cose che dicono i bambini quando ancora non sanno, o sanno il mondo loro: un mondo assurdo, pazzo, come una fotografia a fortissimo contrasto, o netto e dolce come un bianco e nero.
Un mondo buono come non l'avevo visto mai, prima di loro.

- catturare le luzzole del sole, mentre giochi con una sfera di plastica che riverbera i raggi.

- piantare delle carote maziche e ziganti in un vaso, e aspettare che crescano. In 30 secondi.

- chiamare le cose con nomi diversi, per vedere solo un poco l'effetto che fa.

"Quetta è finocchietta. " 
"No, non è finocchietta, quella è aspargina, asparago selvatico." 
"No: è finocchietta." 
"Guarda puoi anche chiamarla come vuoi tu, non è che sia proibito. Solo che poi la gente non capisce quando parli, perché tu la chiami finocchietta ma ciò che vedono in effetti è aspargina: si chiamano convenzioni." 
"Non dire socchezze, mamma." 
" Ah sì? allora dai, vieni qui, Carletto." 
"?"
" Carletto, vieni. Vieni dalla mamma, su, che stiamo facendo tardi." 
"Non mi chiamo Carletto." 
"Ah no? E come ti chiami, allora?" 
"Mazinga."

- annotare un messaggio per Babbo Natale a Maggio: ho bisogno di un topo, mamma. Di un topo cavaliere. Diglielo tu, a Babbo Natale.

- sognare di avere, da grande, una scuola di nuoto. Per nuotare tutto, tutto il zorno.

- armarsi di lente d'ingrandimento e arrendersi all'incontestabile evidenza che nulla esiste di più seducente, al mondo, di un guscio di lumaca.


13 maggio 2014

the radio star.

L'altra sera ad aerobica è venuta una ragazzina, credo che la madre ogni tanto se la trascini dietro per non lasciarla a casa da sola ad annoiarsi.
Indossava dei jeans skinny su un paio di gambette da fenicottero che puoi avere solo a 13 anni, i piedi dentro un paio di scarpe rosa da ginnastica enormi e una t-shirt nera XL a motivi tribali.
Era pallida, due occhi enormi di chi non sa bene dove stia il suo posto ma dubita in ogni caso possa essere quello in cui si trova, i capelli un po' unti raccolti in una coda.
Una via di mezzo tra una winks e un'emo, praticamente un po' me 20 anni fa.
Oddio, 20 anni fa.
Mi sono detta, questa di me pensa che io sia un vecchia. Proprio non mi vede, mi oltrepassa.
Io a 13 anni la gente di 34 non la vedevo, e se la vedevo la categorizzavo come vecchia.
Avevo una capacità di estraniarmi dal contesto sovrumana.
Manco delle cuffie avevo bisogno: pigiavo un tasto interno "off" e mi eclissavo dal mondo.
Ricordo intere cene dalla nonna così, intere spese trascinando il carrello dietro mia madre, intere mattine in autobus con latine discere aperto sulle ginocchia e la testa appoggiata al vetro appannato.
Pensavo a un sacco di cose, quasi sempre le stesse.
Ai ragazzi, per lo più. Non uno in particolare, avevo pensieri sull'amore in generale dico.
Anche un po' sul sesso.
Qualche personaggio di qualche libro.
La scuola e un qualsivoglia compito di matematica. Dio che ansia, pure ora.
Pensavo a mio padre, moltissimo.
Un giorno capitò una cosa strana, che ora non potrei definire brutta, ma cambiò la vita di tutte noi tre per i successivi dieci anni, portandoci via parecchia luce.
Fu una cosa sciocca, una cosa apparentemente normale, ma mia madre la prese malissimo e io pure peggio, dietro a lei.
Fu come scoperchiare il vaso di Pandora.
A 13 anni indossavo magliette più grandi di me, per non far vedere il seno che cresceva. Avessi saputo che lì si sarebbe fermato mi sarei evitata tutte quelle paturnie.
Per questo, e per i suoi pensieri dentro un'ora di ginnastica, e per i vasi di pandora che prima o poi si scoperchiano per tutti, mi ha fatto tenerezza quella ragazzina.
E per le scarpe enormi, e perché mentre io in un impeto di esaltazione musical-sportiva saltavo canticchiando al ritmo di video kill the radio star lei mi guardava con quella faccia lì, proprio di quella che ma che è 'sta canzone che non l'ho mai sentita prima.